Donnafugata mi ha portato a Pantelleria: il racconto dei miei giorni panteschi

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Ci sono posti destinati a segnarci più di altri, a volte semplicemente perché sono molto diversi da quelli in cui siamo già stati. Pantelleria è di certo uno di questi posti per me. L’isola è di una bellezza insolita, rara, e soprattutto inconsapevole. Ti stringe con quelle sue architetture così antiche e ti libera quando guardi il suo mare blu che si perde dopo gli impervi scogli.

Le mie prime ore a Pantelleria le ho trascorse tra i vigneti centenari, il Giardino Pantesco e la cantina di Donnafugata, da cui ho ricevuto l’invito a vivere l’isola. E così ho fatto: mi sono immersa totalmente tra le sue spettacolari meraviglie, cercando di posare i miei sguardi sempre con occhi nuovi. 

La prima serata in contrada Khamma è volata tra l’aperitivo e i guizzi melodici del Maestro Ciomei che ondeggiava tra Mozart e ogni possibile richiesta del pubblico.

Due cose di cui ho fatto il pieno a Pantelleria sono il mare e gli aperitivi. Il mio secondo giorno pantesco è trascorso tra un’intensa mattinata di trekking in contrada Khagiar e un aperitivo (con numerosi brindisi, ovviamente!) sul mare, seguito da un ricco pranzo. Ecco, anche il cibo è stato abbondante sull’isola. Il bacio pantesco, in particolare, meriterebbe, anch’esso, un riconoscimento speciale dall’Unesco!

Nel pomeriggio c’è stato un interessante incontro con lo studio di architettura Giuntoli che ha illustrato a me e al restante gruppo le origini e le caratteristiche principali dei dammusi. Mai sentiti primi? I dammusi sono le tipiche abitazioni pantesche. Pensa che l’isola ne vanta oltre 8000 unità. Queste costruzioni iniziano a comparire nel XV secolo, ma è solo nell’800 che Pantelleria inizia a popolarsene. L’aperitivo sul tetto di un dammuso, quella famosa cupola bianca che avrai di certo visto in qualche foto su Instagram, a questo punto era immancabile. 

 

Il vino è soprattutto attesa e fatica, oltre che sapore dolce di sacrificio. E Donnafugata continua ancora a mettere in piedi questa incredibile equazione di lavoro e natura per realizzare i suoi vini. 

Tutta la cura della vigna e la vendemmia di Donnafugata è a mano. Gli unici macchinari prendono parte a questa giostra umana solo quando dall’acino si ricava il vino, ma gran parte del lavoro è manuale: la cura delle viti, la potatura, raccolta e il suo trasferimento. Gli operai portano in spalla lungo tutti i terrazzamenti le cassette con l’uva raccolta, quasi a volerla cullare un’ultima volta prima che inizi il processo di trasformazione in vino

A Pantelleria la coltivazione di Donnafugata, anzi l’allevamento, per utilizzare il loro gergo autentico, è solo di Zibibbo. La sua particolare vite ha la forma e la dimensione di un cespuglio. È chiamato “alberello pantesco” e da qualche anno è tra i beni Patrimonio dell’Umanità UNESCO. La sua forma è dovuta al forte e costante vento che veglia sull’isola. Se dai uno sguardo al resto della vegetazione pantesca, ti accorgerai che anche gli ulivi sono nani. Le uniche piante alte sono le palme e qualche cactus. 

 

Ma il tour pensato da Donnafugata ha previsto anche altre tappe. Il terzo giorno abbiamo assistito al processo produttivo del Ben Ryè, il celebre passito di Donnafugata tra i vini dolci più apprezzati al mondo. Il suo colore ambrato è un piacere per gli occhi prima ancora che per il palato. Ho scoperto che gli acini appassiti vengono staccati uno a uno, chicco per chicco, dal grappolo e che per ottenere un litro di Ben Ryé servono 4 kg di uva. Un lavoro certosino che però garantisce un gusto eccezionale. Se hai mai assaggiato il Ben Ryè saprai bene di cosa sto parlando! 

Abbiamo poi fatto tappa al cappereto di Bonomo, una coltivazione che su terrazzamenti che crea una sorta di anfiteatro naturale. Da qui ci siamo poi spostati al laboratorio artigianali che si occupa di lavorare i capperi raccolti.

La realtà Donnafugata, presente non solo a Pantelleria ma anche a Marsala, Contessa Entellina, Vittoria e sull’Etna, è molto fedele alla tradizione. Forte di una storia familiare incredibile, ha saputo affrontare i decenni dalla sua fondazione con una sapiente cultura del lavoro e una cura finissima della qualità.

Nei miei giorni panteschi, insieme ad un gruppo di creator insaziabili di tramonti proprio come me, ho avuto modo di assaggiare diversi vini. Pur non essendo un’esperta del settore – metto le mani avanti con umiltà – posso dire con sincerità di averli apprezzati tutti moltissimo. Sur Sur, Floramundi, Kabir, il già citato Ben Ryè e poi ancora Vigna di Gabri, Bell’Assai, Ben Tue: queste sono le etichette, di diverse annate, con le quali ho fatto scintillare in aria i miei calici. Ogni vino profuma di storia, di famiglia, di tradizione. Il Vigna di Gabri, ad esempio, dai sentori floreali di sambuco e acacia, è un omaggio all’amore: di un uomo, Giacomo, per sua moglie, Gabriella (fondatrice di Donnafugata) e di quest’ultima per il suo tanto ricercato vigneto di Ansonica.

Per una toscana come me l’argomento vino potrebbe sembrare intoccabile, invece ho appurato con piacere che ci sono terre che regalano frutti incredibili. Ho imparato la sapienza e il sacrificio dalle mani di chi tratta con cura ogni piccolo acino. Ho adorato i sorrisi sudati di chi fatica sulla terra e chi dalla natura ottiene sempre nuova vita.

Bella che sei Pantelleria, forse non ti ho ringraziato abbastanza per avermi fatto capire quanto i tuoi silenzi mi hanno concesso di pensare. Sei bella e inconsapevole, ricca e di buon cuore. E se adesso so tutto questo, lo devo solo all’entourage di Donnafugata, che mi ha condotto per mani a scoprire tutti gli incanti dell’isola.

Ecco il racconto della mia prima volta a Pantelleria. Hai mai vissuto un’esperienza su quest’isola? E dei vini Donnafugata vogliamo parlare? In questo post gli argomenti sono mille, ti aspetto nei commenti per tutte le domande che vorrai farmi.

Articolo in collaborazione ed esperienza supportata da:

DONNAFUGATA

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